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Il ritorno della violenza politica

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel discorso politico della Lega e di Salvini la violenza, pur essendo ad esso connaturata, è andata occupando un posto sempre più centrale ed esplicito. Si tratta di una violenza reazionaria, diretta cioè verso i più deboli proprio mentre non si toccano o si perseguono gli interessi dei più forti. Ancora più difficile dovrebbe essere negare la correlazione diretta che esiste tra la propagazione del discorso d’odio del ministro dell’Interno e la crescente aggressività che proprio negli ultimi mesi si è registrata a danno delle minoranze. Non si dovrebbe dimenticare, tanto per cominciare, che lo scorso 4 marzo Salvini ottenne un exploit elettorale, francamente inatteso nelle proporzioni, sulla scia dei fatti di Macerata, quando, il 3 febbraio, un criminale imbevuto dell’ideologia di odio fascio-leghista prese la pistola e sparò su sei persone perché avevano la pelle nera. Per pura fortuna nessuno rimase ucciso, ma poteva essere una strage.  Significativamente, molta parte dell’opinione pubblica e dell’informazione si rifiutò di chiamare l’autore della tentata strage con il suo nome: terrorista. È quello che accade, non soltanto in Italia, quando l’attentatore è bianco e le vittime o potenzialmente tali hanno la pelle nera.

 

Giova esplicitare questo passaggio: il fatto che il terrorista fosse vicino al partito dell’attuale ministro dell’Interno (già candidato alle elezioni comunali di Corredonia in lista con la Lega Nord) non ha fatto perdere consenso a Salvini, anzi è successo esattamente il contrario. Questo la dice lunga sul livello di incattivimento di larghi strati della società. Eppure, non solo da destra, molti insistono nel negare che esista un problema razzismo in Italia. Non appare tollerabile che “stanchezza” ed “esasperazione” possano rappresentare valide giustificazioni, come spesso si sente dire: non esiste alcuna relazione tra esperienze di vita difficili quanto si vuole e il razzismo plateale, come si vuole far credere per negare quest’ultimo. Se non sei razzista, non lo sei mai.

 

Nelle medesime considerazioni incontra un limite anche l’argomento, di per sé sacrosanto, per cui la sinistra dovrebbe fare autocritica e chiedersi come mai abbia perso ampi segmenti di elettorato, specialmente tra le fasce più sofferenti della popolazione consegnate ora al grillo-leghismo. Non c’è demerito, per quanto indiscutibile, della sinistra né della pseudo-sinistra che dovrebbe sfociare in un atteggiamento giustificazionista o possibilista nei confronti del peggiore dei governi possibili.

 

Anche perché il leghismo, dal quale l’alleato “post-ideologico” (!) si sta facendo felicemente risucchiare, si inscrive in una destra che è la peggiore oggi in circolazione: quella nazionalista, autocratica, illiberale, clericale e xenofoba degli Orban e dei Trump. Ma, soprattutto, questa destra si muove nel quadro di una ristrutturazione ideologica del tutto consapevole. Si veda la fiducia e l’attesa con la quale Steve Bannon, suprematista bianco, ex-stratega di Trump e ammiratore del fascismo storico guarda oggi al laboratorio Italia. Non è quindi possibile né sottovalutarla, considerandola un semplice epifenomeno dell’egemonia neo /ordo-liberale e del potere tecno-finanziario, né ascriverne l’ascesa unicamente ai demeriti della sinistra, anche se questi  certamente giocano un ruolo, perché la sinistra ha lasciato libero uno spazio e come sappiamo in politica gli spazi non rimangono vuoti.  Bisogna, dunque, ragionare a fondo sulle condizioni che stanno permettendo a questa destra di sedurre quella grande massa di manovra elettorale rappresentata dagli sconfitti della globalizzazione.

 

Si tratta di una destra, come abbiamo detto, la peggiore oggi possibile, non da ultimo perché profonde da sempre ogni sforzo per canalizzare la sofferenza sociale dei penultimi contro gli ultimi e usare dunque la classica guerra tra poveri come valvola di sfogo delle tensioni sociali,  mentre le sperequazioni vengono lasciate inalterate se non ulteriormente allargate (si veda la priorità sulla flat tax).

 

Non è quindi una pura coincidenza se dai fatti di Macerata, ai risultati elettorali, alla capacità di Salvini di imporsi come dominus nella scena politica mettendosi in tasca quel sempliciotto (politicamente parlando) di Di Maio, per arrivare infine alla giornaliera violenta retorica contro i migranti del ministro degli Interni urlata ora da una posizione di forza, negli ultimi mesi i casi di prepotenza o di esplicita violenza nei confronti di uomini e donne appartenenti a minoranze etniche  sono andati aumentando in modo preoccupante. Quel che è peggio, esiste un generale ritegno del senso comune nell’ammettere l’evidenza. Di recente, per non farsi mancare nulla, sono anche apparsi su alcune spiagge italiane gruppi di persone in atteggiamento paramilitare con il compito autoattribuito di cacciare presunti e certamente inermi abusivi. Le squadre appartenevano in un caso(a Castelleta in Puglia) al partito del ministro dell’Interno Salvini, in un altro (ad Ostia) ai neofascisti di Casa Pound.

 

Questo esito, purtroppo, non è sorprendente. “Ma il razzismo c’era anche prima di Salvini”, è il puntuale ritornello scandito dai negazionisti. Certo, il razzismo c’era anche prima – e proprio la Lega, per altro, lo ha cavalcato con lauto profitto già nella stagione del berlusconismo rampante. Ma il punto è che non può essere indifferente che la banalità del male sieda ora al Viminale. Salvini ministro dell’Interno, vice-premier e premier de facto significa la perentoria autorizzazione nei confronti di un tipo d’uomo che fino ad oggi poteva ancora, e certamente doveva, essere additato come reprensibile nelle sue idee e che oggi si sente vincente, legittimato, tanto da  ritenere di poter imbracciare un’arma e sparare proiettili di piombo contro esponenti di minoranze, un’azione criminale compiuta diverse volte negli ultimi due mesi.

 

Nello stesso clima si inserisce l’episodio più eclatante, il barbaro assassino del bracciante e sindacalista nero Soumaila Sacko, ucciso il 2 giugno nel vibonese, in Calabria, a colpi di fucile, proprio all’indomani della cerimonia di insediamento del nuovo governo.

 

Negli ultimi mesi Salvini non ha fatto altro che dilatare il discorso pubblico, che ormai sembra capace di assorbire qualsiasi enormità, si veda la proposta di schedatura di una minoranza, i rom, su base etnica, e l’incessante discorso d’odio sui migranti. Non ha mai assunto una posizione di condanna minimamente convincente verso gli atti criminali commessi contro le minoranze. Esattamente al contrario, dal 1° giugno non è passato giorno senza che abbia twittato il suo odio contro i migranti. Salvini è politicamente e moralmente responsabile per il ritorno della violenza politica in Italia.

 

Bisogna augurarsi che da questo torpore del senso comune ci si risvegli quanto prima, anche se le condizioni al contorno, con il salvinismo in piena egemonia, non sembrano promettenti. Nonostante l’assuefazione del senso comune e il processo di normalizzazione della Lega, compiuto negli anni Duemila con il suo accoglimento nella morbida casa del “moderatismo” ad opera di Silvio Berlusconi, l’intolleranza è strettamente connaturata all’ideologia fascio-leghista.  Ma la Lega non è la sola ad aver lavorato incessantemente per costruire questo clima. Anche il movimento di Casaleggio e Grillo, oggi alleato di governo di Salvini, vi ha collaborato attivamente.

 

Il M5S, se non altro lo zoccolo duro dei trenta o quarantamila “attivisti digitali”, usa da sempre la motosega linguistica contro chiunque formuli una critica all’indirizzo del Movimento. Chi usa la rete per esprimersi e abbia “osato” formulare punti di vista critici verso il M5S, può averne fatto esperienza. Non importa che si utilizzino argomenti, pioveranno insulti. Ciò accade perché la leadership ha consapevolmente incoraggiato questo abito mentale, plasmando un movimento profondamente manicheista: tirando una linea netta, o con “Noi”, o contro di Noi, dritti nel contenitore indifferenziato della Casta. Chi è contro il M5S viene tirato immediatamente nel tritacarne e annoverato tra i responsabili di ogni male nel quale versa il Paese.

 

Il Movimento ha da sempre fatto ricorso alla violenza verbale, che la leadership (Casaleggio-Grillo) ha coscientemente promosso ad atteggiamento autorizzato, funzionale a rafforzare la percezione di alterità del Movimento e la sua retorica anti-sistema. Oggi si vede chiaramente che questa strategia di comunicazione ha dato eccellenti risultati.

 

Occorre rendere esplicito che il M5S non è certamente il solo ad aver contribuito a un risultato talmente negativo e preoccupante. Abbiamo assistito alla trasformazione dell’avversario politico nel nemico da abbattere e naturalmente si possono citare benissimo a piacere Berlusconi o, penultimo arrivato, Renzi, con il suo vocabolario costantemente teso alla denigrazione dei suoi critici, dai “gufi”, ai professori fannulloni, agli sfottò, al bullismo istituzionale.  Il M5S non è affatto solo, dunque,  ma da questo clima ha saputo trarre il vantaggio maggiore e arrivare al potere insieme al partito che alla trasformazione dell’avversario politico in nemico aggiunge anche un’ideologia costitutivamente aggressiva, che scarica sulle minoranze odio e frustrazione sociale per proprio tornaconto elettorale e per trarne un consenso con il quale attaccare lo Stato di diritto. La Lega da sempre gioca con profitto ad aizzare i penultimi contro gli ultimi.

 

Inoltre, il nesso tra il ricorso alla violenza verbale centrale nella strategia di comunicazione del M5S e l’attuazione della violenza anche fisica non dovrebbe mai essere sottovalutato. Le parole sono sempre azioni. In alcuni casi possono essere pietre. Tullio De Mauro disse una volta che “la distruzione del linguaggio è la premessa di ogni futura distruzione”. Purtroppo l’affermazione dell’insigne linguista ha dalla sua un intero corredo di conferme storiche. Ove a queste considerazioni si aggiunga il perfetto allineamento del M5S a Salvini in posizione subalterna, si deve concludere con forza che i cinque stelle sono tutt’altro che estranei al clima di violenza politica e di guerra civile latente che il segretario della Lega sta cercando di instaurare nel Paese. Sono complici.

 

Lega e M5S si sono spinti molto oltre nella demonizzazione dell’avversario e hanno in comune anche un’intera narrazione, divenuta ora pienamente leggibile nel battezzare come radical chic, buonista, piddino ecc. (sembrano diventati tutti sinonimi) chiunque esprima un punto di vista critico verso il governo “giallo-verde”.  Per verificare la perfetta sovrapponibilità delle due narrazioni, quella leghista e quella a cinque stelle, si possono ripercorrere alcune dichiarazioni di Grillo nel corso del tempo.

 

Era il settembre del 2014 quando Grillo, sul suo blog, cavalcava il meschino cliché xenofobo degli immigrati portatori di malattie. Il pretesto era fornito dal caso del presunto contagio di tubercolosi di 40 poliziotti mentre svolgevano servizio di accoglienza migranti. Dieci giorni dopo fu la volta dell’allarmismo sull’Ebola. Si trattava di uscite non estemporanee. Si inquadravano, piuttosto, in una lunga serie di prese di posizione che sempre più hanno portato il M5S ad allinearsi alla Lega sui temi relativi a immigrazione, Ius soli, nuova cittadinanza. Naturalmente, per far passare un razzismo talmente atavico e plateale, allora esattamente come oggi si accusava preventivamente di “buonismo” chi avrebbe il torto di non vedere il problema nei suoi presunti termini concreti. L’interlocutore-tipo al quale Grillo si rivolgeva polemicamente, nel post pubblicato sul suo blog, assumeva la conveniente forma dei «radical chic e della sinistra che non pagano mai il conto e di chi non vuole affrontare mai il problema», ai quali Grillo attribuiva «i triti e ritriti confronti degli italiani come popolo di migranti che deve comprendere, capire, giustificare chiunque entri in Italia» (Dal blog di Beppe Grillo, 2/9/2014).

Si presti attenzione alla struttura del discorso di Grillo, e ai bersagli polemici: i “buonisti”, i “radical chic”. Non può sfuggire la piena sovrapponibilità con la propaganda fascio-leghista che oggi, con Salvini che siede al Viminale, pesca a piene mani dallo stesso armamentario retorico, purtroppo con forza ed efficacia drammaticamente accresciuti. L’esito finale del M5S, al governo con la Lega in posizione subalterna, non può quindi essere considerato casuale, contingente o frutto di un’intesa pragmatica, come è stato presentato. È evidente proprio il contrario: tra Lega e M5S esiste una naturale convergenza ideologica, visibilissima sul tema dei migranti, sul quale da anni il M5S collabora attivamente a costruire la stessa narrazione tossica e razzista della Lega, come mostrano le numerose affermazioni di Grillo.

(PPC su Non mollare n. 26 del 17/09/2018)
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