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Brand Italia, sagra del Belpaese

Dalla Cina al Perù, dagli Stati Uniti al Cile, Renzi se ne va in giro a vendere il brand Italia, la narrazione dell’Italia che “riparte”; esortando, qui da noi, a non crogiolarci nella propensione nazionale a lamentarsi. Una propensione, si vuole suggerire, tanto più palese ed ingiustificata, e tanto più deprecabile, quanto più i segnali di ripresa sarebbero chiari ed incontrovertibili.
Mentre si tagliano diritti (Jobs Act), mentre si restringono gli spazi della democrazia (controriforme costituzional-istituzionali ed elettorale), sviluppo e crescita sono da una parte enfatizzati e ostentati ben oltre ogni realismo e decenza, dall’altra penosamente confinati, a ben vedere, a quanto di “tipico” il brand Italia è in grado di offrire: Renzi, mezzano più che capo di Governo, eccellente imbonitore, marosseur più che mediatore, porta in giro il marchio condito con la roboante retorica del turborenzismo. Di sicuro il brand Italia va venduto sia all’interno che all’esterno, e così lui viaggia molto. Del resto, come catalizzatore di stereotipi dell’italianità, non proprio lusinghieri, il giovanotto ha un impareggiabile predecessore. Renzi ripropone lo schema ma, si dirà, almeno senza i vizietti appariscenti, gli eccessi e le gaffe da operetta dell’altro. È una magra consolazione. L’Expo, non simbolo dell’Italia che riparte ma vetrina di un Paese in vendita al miglior offerente, significa che l’Italia rinuncia ai suoi principali asset stratetici, pubblici e industriali per contenersi essenzialmente nel perimetro individuato dall’icona del “Belpaese”: la gastronomia, il turismo, l’arte. Questa rinuncia ad ogni ambizione viene pomposamente presentata come rinascita dell’ambizione nazionale.
Il punto non è l’antipolitica delle spese dei viaggi di Renzi (inutile, fin troppo facile, fuorviante), ma le ragioni e le finalità sottese alle frequenti escursioni del boy-scout di Rignano: quali interessi e quale immagine dell’Italia esse promuovano. È un’Italia che tenta di nascondere, invece di ammettere e cercare di porvi rimedio, la cronica stagnazione del suo sistema produttivo e della sua economia (mentre scrivo le agenzie battono i dati diffusi da Eurostat, secondo cui l’Italia è il Paese dell’UE con il più alto numero di disoccupati diventati inattivi). Segretamente si certifica il declino, lo si riconosce come irrimediabile, si dismettono i principali asset stratetici, tutti in vendita al miglior offerente sul mercato selvaggio e rapace del capitalismo monetarista, per rimanere con le industrie nella gamma dello stereotipo dell’Italia, come detto gastronomia, turismo ecc; per rendere l’Italia quanto più somigliante a ciò che fuori dall’Italia le si chiede di essere: tipicamente bizzarra ma ininfluente. Egocentrica, ma periferica. Inaffidabile, ma servile. Capricciosa, ma facilmente controllabile. Mentre dichiara di non preoccuparsi delle elezioni bensì delle successive generazioni, Renzi ha in realtà bisogno di una propaganda incessante come unico mezzo per mantenere un consenso fondato sul nulla. Ha bisogno di spostare l’attenzione dal ristagno economico e produttivo (ed è per altro fortunato, perché è stato aiutato da qualche congiuntura favorevole, schiarite momentanee in un cielo molto nuvoloso) ad un’idea di “sviluppo e crescita” che possa prescindere dal drammatico avvitamento del sistema produttivo. Ecco come nasce questa idea di Italia così ossessivamente reiterata anche all’estero, dove è certamente forte la percezione stereotipata del Belpaese come terra del buon cibo, della cultura e della bellezze artistiche. Ed ecco il Tg1 (ogni tanto è bene sottoporsi allo sconcertante rituale per capire a che punto siamo): si deve dare la notizia dell’inclusione da parte dell’Oms delle carni lavorate nei fattori altamente cancerogeni? Bene, si prende una dichiarazione del ministro Lorenzin che assicura che la dieta mediterranea è sempre la scelta migliore e si chiude uno spot di governo di compiaciuta banalità con l’immancabile patron di Eataly. Il renzismo ha bisogno di innestarsi su questa trama di stereotipi immediatamente disponibili per nascondere la realtà di un Paese del quale tra cinque anni nessuno sa cosà sarà e cosa sarà rimasto; e nel contempo per conservare una presa sul potere che dipende interamente dall’immagine di innovatore dal passo veloce. Per questo sullo stereotipo Renzi imprime il marchio del suo efficientismo, in un connubio che non significa crescita, ma amministrazione del declino, certificazione di tutte le lunghe involuzioni del sistema Italia, nessuna esclusa, razionalizzazione ma solo del peggio. Non un modello di sviluppo reale, nessuna idea di crescita: l’unico risultato concreto è la conculcazione dei diritti, che si pretende, dagli 80 Euro al bonus dei 500 Euro per i docenti della scuola, di comprare in cambio di elargizioni una tantum infinitamente meno onerose per l’erario dello Stato di quanto non sarebbe il giusto riconoscimento dei diritti e del lavoro. Il renzismo: vetrina del brand Italia nella sagra permanente (qualcuno preferì dire bordello) del Belpaese in svendita. Di cosa ci lamentiamo?

(PPC su Criticaliberale.it n. 33 del 2/11/2015)

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