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I buoni e i cattivi della propaganda americana


I cattivi possono farla franca per un po’, ma alla fine verranno puniti e pubblicamente dileggiati. Lo schema fondamentale della commedia antica è tutto qui: sullo sfondo di una morale aristocratica, l’epilogo è la bastonatura dell’impostore di turno, cui deve far eco l’applauso del pubblico. Alla fine i cattivi vengono ridicolizzati, l’ordine ristabilito, il bene trionfa. Chi pensa che questo canovaccio abbia una valenza circoscritta, di genere o di tempo, è destinato a rimanere deluso e riconoscere come la commedia sia molto di più, una categoria esistenziale vera e propria e fin troppo attuale. Il cinema hollywoodiano non si discosta da quel copione, e trova la sua composizione nel “lieto fine”. Produzione cinematografica non causale, perché risponde a una specifica esigenza della classe media di essere rassicurata sull’esistenza di un mondo in cui esiste un ordine stabilito e in cui il male (ovvero “ciò che lede i nostri interessi”) sia relegato all’eccezione e destinato comunque a soccombere.

Ma da quello schema non si discosta nemmeno la politica del governo americano, che demonizza i “cattivi”, rassicura l’elettorato che il nemico non può che perdere perché questo è l’ordine delle cose, e la più innocua bastonatura finale della commedia trova la sua controparte moderna nell’impiego di armi ad alta tecnologia. Il potere ha bisogno del cattivo di turno, del colpevole da punire e da ridicolizzare. Ma il potere ha bisogno anche del consenso, e questa è l’altra faccia della medaglia. Cioè non può limitarsi a individuare e colpire il cattivo, deve anche persuadere che è cattivo e questa operazione specifica di costruzione del consenso è svolta dalla propaganda.

George Orwell, in 1984, aveva interpretato questo stato di cose con straordinaria lungimiranza, immaginando un regime che, per controllare i sudditi, aveva anzitutto riformato la lingua. E lo aveva fatto costruendo una serie di implicazioni obbligate, in virtù delle quali due parole, non necessariamente opposte quanto al significato, venivano invece proditoriamente poste come contrari. Un esempio: la parola “anti-fascista” verrebbe in questo modo ad essere sinonimo di “comunista”. Si possono fare molti altri esempi svincolati da ogni diretto riferimento alla politica, senza che cambi la sostanza: cioè che la manipolazione della lingua (e delle immagini) è il primo accorgimento adottato dal potere per orientare la percezione delle masse verso un fine desiderato. La demonizzazione del nemico appare, in ogni caso, un bisogno costitutivo della politica americana. La retorica con la quale veniva giustificata la guerra del golfo non era in nulla dissimile, si ricorderà al riguardo la preferenza di Bush senior per l’analogia Saddam Hussein–Hitler, riproposta con parossistica insistenza. Il male deve ricevere un volto reale, concreto, altrimenti la guerra al terrorismo, per tornare all’attualità, rimarrebbe soltanto un vuoto slogan, incapace di mobilitare e muovere all’azione. Non è lo schema ad essere mutevole, bensì proprio il volto del male, la sua personificazione, che di volta in volta riceve materializzazioni diverse: prima Bin Laden, poi Saddam Hussein, promosso a destinatario privilegiato della retorica di Bush quando la guerra in Iraq è diventata prioritaria. Insomma, lo schema, di chiaro stampo manicheista (bene contro male) non prevede variazioni, mentre le ragioni della politica e le logiche mediatiche suggeriscono evidentemente una certa dose di elasticità sulla scelta dei cattivi di di turno. Al di là di qualsiasi presa di posizione ideologica bisognerebbe domandarsi se, nel caso della guerra in Iraq, il “copione” stilato all’insegna del più rassicurante ottimismo sull’epilogo trionfale, non abbia quanto meno tralasciato degli aspetti sostanziali, primo fra tutti il fatto che l’unilateralismo della politica americana avrebbe finito con l’acuire, e non stroncare, il fondamentalismo di matrice islamica, come mostrano in modo inequivocabile gli eventi delle ultime settimane. Dopo la cattura del cattivo per eccellenza, Saddam Hussein, annunciata a suo tempo con un comicissimo “signore e signori, lo abbiamo preso”, la guerra in Iraq è molto lontana dal potersi dire conclusa.

Pier Paolo Caserta su Aprileonline, 23/04/2004
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