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Che cos'è il relativismo

Secondo i teologi cattolici "relativismo" è indubbiamente sinonimo di "nichilismo", del vuoto abissale di valori che rappresenterebbe una minaccia incombente sull'Europa e sull'Occidente. Ma anche al di là della Chiesa, l'equazione relativismo = nichilismo è molto diffusa. Eppure, i critici odierni del relativismo di norma si astengono accuratamente dal darne una definizione e indicarne le origini.

Come stanno dunque le cose? E, in primo luogo, che cosa afferma esattamente il relativismo, in che modo è stato enunciato dai suoi maggiori rappresentanti?

Nella sua duplice componente (culturale e linguistica) il relativismo moderno asserisce che ogni sistema di pensiero è relativo alla particolare cornice culturale all'interno della quale viene formulato e non può quindi essere considerato assoluto.

Alla base di questa ipotesi sta l'assunto che non esistano idee innate, piuttosto le idee si formerebbero dalla contaminazione con le lingue, la cultura e l'ambiente. Tra linguaggio e pensiero esisterebbe dunque un condizionamento reciproco. Questa ipotesi non è mai stata verificata e probabilmente non è in linea di principio verificabile sperimentalmente: una circostanza, quest'ultima, che conferisce al relativismo più una valenza antropologica e linguistica, piuttosto che rigorosamente scientifica.

La versione linguistica del relativismo è stata attaccata dai teorici dell'innatismo, il più autorevole dei quali è stato sicuramente Noam Chomsky, che con la celebre teoria delle grammatiche generative ha avuto larghissima influenza negli studi sul linguaggio. Tuttavia questa critica non è approdata ad evidenze conclusive e il dibattito sui rapporti tra pensiero e sistema linguistico rimane aperto.

Una delle conseguenze ultime del relativismo è che non esiste parametro possibile per decretare la superiorità di una cultura sulle altre. Negli scritti di B.L. Whorf, linguista americano attivo nella prima metà del Novecento, questo aspetto è formulato esplicitamente e prende la forma di una riabilitazione delle culture extra - europee, che l'antropologia di quel periodo, influenzata dal neopositivismo e fedele a una concezione lineare del progresso (inteso ingenuamente come sviluppo da una condizione peggiore ad una migliore), considerava ancora come uno stadio "primitivo" dell'evoluzione dell'uomo.

Whorf era pervenuto a queste conclusioni attraverso lo studio sistematico delle lingue amerindiane, inaugurato da Franz Boas e proseguito da Edward Sapir. Il raffronto delle diverse strutture linguistiche e concettuali delle parlate dei Nativi d'America con le lingue indoeuropee aveva convinto lo studioso americano che alcune categorie che siamo portati a considerare universali, come quelle di spazio o di tempo, sono trattate da altre culture in modo differente e sono improntate a criteri diversi.

La ricezione delle teorie di Whorf fu a dir poco ostile, al punto che i suoi scritti furono letteralmente oggetto di censura da parte del Governo americano. Erano gli anni della "caccia alle streghe" scatenata dal senatore McCarthy.

Che cosa avevano di sovversivo e censurabile le teorie di Whorf? Assolutamente nulla, se non la chiara enunciazione della pari dignità di culture diverse, cui conducevano le sue ricerche e il conseguente, implicito diniego della superiorità della cultura occidentale.

A conclusioni analoghe portava l'altro filone maggiore del relativismo, che si sviluppa in ambito strettamente antropologico, configurandosi come obiezione anti-imperialista nei confronti degli aspetti più cruenti del colonialismo inglese.

Una ricostruzione storica anche sommaria mostra dunque che il relativismo, nelle sue diverse formulazioni è sostanzialmente un principio epistemologico di tolleranza. I suoi bersagli polemici sono l'innatismo, lo scientismo - cioè la pretesa della scienza di avere tutte le risposte perché si fonderebbe su concetti universalmente validi - e, in generale, i progetti egemonici basati sull'idea di superiorità di una cultura.

A chi dispiace allora il relativismo, per chi è una teoria scomoda?

La necessità di condannare apertamente il relativismo si riaffaccia ciclicamente ogni volta che si cerchi di imporre un'identità reazionaria ed esclusivista, normalmente connessa a progetti egemonici (siano essi di natura culturale, etica o politica) nei confronti dei quali il relativismo rappresenta una potente obiezione.

Ma la via che segue questo sforzo di confutare il relativismo non è una via onesta, come sarebbe per esempio una riesposizione critica dei suoi principi fondamentali.

È una via surrettizia, che evita costantemente una definizione e gioca piuttosto sul tentativo di radicare nel senso comune un'equazione, quella tra relativismo e nichilismo, che non ha alcun fondamento storico, filosofico ed epistemologico.

Pier Paolo Caserta su Aprileonline, 27/10/2006, ripubblicato con pochissime modifiche.
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