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Difendere la Costituzione dagli avventurieri

Referendum costituzionale 2020 e oltre

 

di Pier Paolo Caserta

 

 

Il referendum costituzionale: per cosa si vota

Il 20 e 21 settembre, contestualmente alle elezioni regionali, si svolgerà anche il referendum costituzionale per decidere se approvare o respingere la legge sulla riduzione del numero dei parlamentari ("Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari"), approvata in via definitiva dalla Camera l’8 ottobre 2019. Il referendum si sarebbe in un primo momento dovuto svolgere in data 29 marzo 2020, ma venne opportunamente rimandato per via dell’emergenza Covid. Si svolgerà, dunque, i prossimi 20 e 21 settembre.

Trattandosi di un referendum costituzionale, è confermativo, non abrogativo. Questo significa che bisogna votare SI per confermare la legge, NO se si vuole invece che non venga promulgata (diversamente dai referendum abrogativi, nei quali bisogno dire Si per dire No e No per dire Si.)

Perché si svolge il referendum costituzionale? Perché previsto dall’art. 138 della Costituzione, relativo alle leggi di revisione costituzionale, il cui secondo comma recita: “le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata, se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi”. Questo significa anche che non c’è quorum: se vanno a votare in tre, decidono quei tre.

 

 

La riforma riduce in modo significativo il numero dei parlamentari, portando i deputati da 630 a 400 e i senatori elettivi da 315 a 200, con un “taglio” di 345 parlamentari (600 contro gli attuali 945). Il 20 e 21 settembre, dunque, si voterà SI per confermare la riforma che dispone la riduzione del numero dei parlamentati, NO per respingerla, lasciando gli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione come sono adesso. Il disegno di legge portava la firma, tra glia altri di Gaetano Quagliarielllo (Forza Italia) e Roberto Calderoli (Lega); approvata in via definita dalla Camera l’8 ottobre 2019, con il voto favorevole della componente maggioritaria di tutti i principali partiti, la riduzione dei parlamentari è diventata il cavallo di battaglia del M5S, che ha proiettato sul referendum costituzionale l’ultimo atto della lotta alla “Casta”.

Orientamenti personali

In sintesi

 

  • i risparmi conseguiti dalla riforma sono irrisori

  • i parlamentari in Italia non sono troppi

  • il taglio dei parlamentari non è una misura contro la Casta, che anzi ne trarrebbe vantaggio

  • Dietro al “taglio delle poltrone” si nasconde la volontà di tagliare il Parlamento e la democrazia rappresentativa

Con più calma


Ma si tratta davvero di una misura contro la Casta? La delusione nei confronti dell’offerta politica rischia di portare a questa conclusione, frettolosa e istintiva. In realtà, seguendo con attenzione il filo delle motivazioni che hanno condotto alla riforma, appare piuttosto evidente il contrario. Il taglio del numero dei Parlamentari è in realtà un taglio del parlamento. Perché? Per cominciare a rendersene conto si possono passare in rassegna i principali argomenti usati dai sostenitori del SI, tenendo sempre ferma, suggerisco, una premessa: un referendum costituzionale è una cosa molto seria e quindi dovrebbero essere gli argomenti a favore del cambiamento ad essere molto convincenti. Altrimenti meglio lasciare tutto com’è. Vediamo.

 

Iniziamo dall’argomento principe: “Con il taglio si conseguono dei risparmi”.

I risparmi derivanti dal taglio dei parlamentari sono del tutto irrisori. Chi è convinto del contrario dovrebbe, francamente, fare l’atto di umiltà di procurarsi con urgenza delle nozioni di base sul funzionamento della macchina dello Stato e sull’entità del bilancio di uno Stato. Il cosiddetto “risparmio” ammonta, infatti, a circa 60 milioni di Euro, il famoso caffè al giorno per ciascun cittadino, dunque è irrilevante. Si capisce bene che, se a fronte di un risparmio così risibile, si peggiorasse per giunta la situazione, proprio non ne varrebbe la pena. Per altro, se la priorità fosse davvero il risparmio, lo si potrebbe ottenere in altro modo, per esempio riducendo gli emolumenti dei parlamentari, senza bisogno di intaccarne il numero e, dunque, la rappresentanza.

“Ma i parlamentari in Italia sono troppi, il numero è immotivato”. I parlamentari in Italia non sono troppi. Per rendersene conto basta una semplice comparazione con gli altri Paesi europei, sulla base dell’unico indicatore pertinente sull’argomento cioè il rapporto eletti /popolazione. Se la riforma verrà confermata dal referendum, l’Italia si attesterà nelle posizioni di coda tra i paesi europei per numero di parlamentari in rapporto alla popolazione. Attualmente l’Italia ha 1,6 parlamentari per 100.000 abitanti, un rapporto che non rappresenta affatto una anomalia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“È una misura contro la Casta”. Per avere qualche dubbio basterebbe ricordare chi sono stati i proponenti e primi firmatati del disegno di legge, i cui nomi ho ricordato sopra. Non esattamente degli anti-casta! Per altro, la legge è stata approvata da tutti i principali partiti che il discorso dei cinque stelle addita come “Casta”, pertanto ci troveremmo di fronte al paradosso di una legge contro la Casta fortemente voluta dalla Casta – al netto dei ripensamenti di alcuni esponenti dei partiti schierati per il SI, che in questi giorni stanno, anche per ragioni diverse, prendendo posizione per il NO, in controtendenza rispetto alla linea dei partiti di appartenenza.

Si deve, inoltre, tener conto che l’attuale numero dei parlamentari consente anche una adeguata rappresentanza dei territori. È, questo, un aspetto fondamentale, perché avere eletti provenienti dai territori consente di portare in Parlamento e di garantire che siano rappresentate istanze e problemi relativi a quei territori. La riforma non tocca tutte le regioni in egual misura, le più colpite sono

Sardegna, Sicilia, Calabria, Basilicata, Umbria, Toscana e Friuli Venezia Giulia [1]

A questo i sostenitori del SI rispondono: “Ma l’attuale legge elettorale limita già di fatto la rappresentanza”, producendo forse qui il massimo dell’avvitamento e del contorsionismo argomentativo: siccome vige una legge elettorale pessima, approviamo una riforma costituzionale pessima. Siccome il principio di rappresentanza è già offeso, distruggiamolo.

 

“Con il SI si elimineranno almeno un po' di furbetti”. Ma come si fa, di grazia, ad essere sicuri che i 345 in meno saranno proprio i furbetti, gli incompetenti, i peggiori? Allora diciamo che siamo in presenza di una miracolosa riforma costituzionale chirurgica! Interverranno con il bisturi, non con le forbici. Non ci vuole molto a capire che questa fiduciosa convinzione poggia in realtà sull’equazione per cui i politici sono tutti ladri e corrotti. Ora, nemmeno il chiaro degrado al quale il quadro politico è andato incontro almeno negli ultimi tre-quattro decenni autorizza quella equazione, che rivela immediatamente il suo fondamento tendenzialmente autoritario: infatti, se i politici sono sempre e certamente corrotti, perché dovremmo liberarci soltanto di 345 di questi ignobili personaggi? A questo punto, tanto varrebbe liquidare direttamente e senza rimpianti il parlamento stesso. In effetti si mira proprio a questo. Senza passare per la formale soppressione del Parlamento, che appare ancora, diciamo, eccessivo anche ai suoi detrattori, si vuole svuotarlo di significato, renderlo docile ai voleri di un potere esecutivo a sua volta rispondente ad altri interessi esterni alla politica. Ho appena anticipato l’intero svolgimento di un ragionamento a riprova del quale mi riprometto di fornire tra breve ulteriori elementi. Intanto, terrei almeno fermo che la mappatura culturale sottostante al “taglio delle poltrone” rivela l’umore che ne è alla base, radicato in una profonda avversione alla democrazia parlamentare e rappresentativa. Con il pretesto di una evidente e lunga crisi sistemica, si vuole portare quella crisi alle sue estreme conseguenze, neutralizzando la politica e il parlamento. Tipicamente, gettando a mare il bambino con l’acqua sporca.

Proprio al contrario, l'avere una cattiva classe politica è un motivo in più per difendere l'istituzione del Parlamento, non per indebolirla.

 

Tra gli argomenti referendari peggiori a favore del SI, o meglio contro il NO, c'è quello fatalista. Si tratta, in realtà, di una contro-obiezione, rivolta a quanti fanno notare che la riforma accentua il controllo sui parlamentari da parte dei partiti.

“Ma perché” -rispondono, “ora le cose sono forse diverse da quelle paventate in caso di vittoria del SI? Chi controlla i parlamentari, già ora?”. Ci sono le varianti e le esemplificazioni: Berlusconi, in effetti, si comprò letteralmente i parlamentari che gli servivano. Questo è vero, purtroppo, perché allora dico che sono cattivi argomenti? Perché, nonostante pratiche pessime e avvilenti, la forma è di importanza fondamentale. Se si preserva la forma si può ancora sperare e agire perché i contenuti siano migliori; ma se si rottama la forma, in questo caso l'istituzione, il peggio diventa certezza assoluta.

 

Last but not the least, altro argomento cardine usato dai fautori del SI è quello dell’efficienza. Mettere al centro “efficienza” e “governabilità” quando si tratta dei processi decisionali democratici rientra nel lessico di quelle tendenze che vedono nella piena articolazione della dialettica parlamentare un intralcio da rimuovere. Ovviamente l’efficienza è importante, ma se si pretende di sacrificare sul suo altare il confronto e il pluralismo, diventa altro. Credo, pertanto, che la risposta più sostanziale all’argomento della presunta efficienza alla quale la nuova deforma costituzionale metterebbe capo vada cercata al livello della cultura politica. Non è affatto chiaro che il taglio netto di 345 parlamentari comporterebbe miglioramenti in termini di efficienza, ossia non è chiaro che tra i due fattori esista un nesso diretto ed esclusivo, a prescindere dal concorso di altri elementi. In ogni caso, anche se questo fosse vero, l’efficienza non dovrebbe essere perseguita ad ogni costo. Da questo punto di vista, basta rispondere che il massimo dell’efficienza nei processi decisionali la si ottiene quando a decidere è uno solo, ma ci troviamo allora agli antipodi della democrazia.

Voglio aggiungere qualcosa su impropri parallelismi che si sono spesi in questi giorni. Gli “onesti” sostenitori del SI chiedono sempre di approvare intanto le loro deforme, salvo rimandare a un secondo momento la modifica della legge elettorale. Questo atteggiamento deve indurre a diffidare delle buone intenzioni dei suoi propugnatori.

Gli argomenti a favore del SI sono, dunque, inconsistenti. Dietro la vernice populista del taglio delle poltrone e dei risparmi si nascondono intendimenti diversi da quelli dichiarati. Il progetto alla base del taglio del Parlamento smette di essere misterioso non appena si compia un ragionevole sforzo di interpretazione e di ricostruzione. Trattandosi di un referendum costituzionale, suggerisco di decidere come votare sulla base della valutazione delle conseguenze sull’architettura costituzionale, non per fare dispetto ad una parte politica, come purtroppo sta anche accadendo e come accadde già nel 2016.

Allo stesso tempo, ritengo non sia affatto casuale che il colpo di scure sul Parlamento sia sostenuto con accanimento dal Movimento cinque stelle. Come ho più volte espresso, sono convinto che il M5S sia essenzialmente un clamoroso, per altro riuscito, esperimento di ingegneria elettorale. Il progetto politico-ideologico che ne è alla base è molto diverso dalle istanze agitate e dichiarate. Il M5S è anzi tutto animato, fin dalle sue origini, da un violento impeto anti-parlamentare.

Non avremmo nemmeno bisogno di perdere tempo ad interpretare. Il 23 luglio del 2018 Davide Casaleggio dichiarò candidamente: “Tra qualche lustro faremo a meno pure del Parlamento” [2], eppure molti non credono che la riforma costituzionale abbia come obiettivo la marginalizzazione del Parlamento. E perché mai non dovrebbe? Lo dice lui. Senza più nemmeno lo sforzo di dissimulare. In modo quanto mai eloquente, dietro la crociata populista contro il numero dei parlamentari si nasconde il preciso progetto di rendere il Parlamento ininfluente. In questa volontà, a dire il vero, il M5S non è certamente solo, anche se ora soffia con forza sul taglio dei parlamentari, al quale lega le residue possibilità di rinvigorire la sua immagine più vicina allo “spirito originario”, sicuramente infiacchita da quando il M5S è al centro degli equilibri di potere a tal punto da apparire il perno di tutti i governi possibili.

 

 

 

La deforma renziana del 2016, fortunatamente bocciata dal referendum popolare, era ispirata da un disegno non dissimile: mirava all’abnorme rafforzamento dell’Esecutivo, a discapito del Parlamento. Si capisce facilmente che anche allora mi espressi per il NO, una posizione che emerge già chiaramente dalla mia scelta terminologica di definire negativamente “deforma” anche il tentativo fortemente sponsorizzato dell’allora Presidente del Consiglio, che al referendum costituzionale del 4 dicembre del 2016 legò le sue contingenti sorte politiche, riuscendone sconfitto. Era una deforma perché alterava pesantemente l’equilibrio liberale tra i poteri. La tendenza al decisionismo, alla “governabilità”, alla invocata rapidità di esecuzione è un segno dei tempi. Ma perché accade questo, e perché da più parti si vuole indebolire il Parlamento? Quello che si vuole, per essere più precisi, è che il Parlamento sia il meno possibile il luogo della dialettica democratica, quindi del confronto, anche aspro, tra punti di vista diversi. Si vuole che sia docile e controllabile. E, quindi, va da sé, incapace di veicolare qualunque radicale cambiamento sociale. Si vuole che la Politica lasci definitivamente il passo ad altri centri decisionali, ai mercati, ai grandi potentati economici, alla tecno-finanza. Su questo, occorre dire, e proprio per una migliore comprensione generale del problema, che questo processo è già ampiamente in atto. Negli ultimi quattro decenni la politica è stata sempre più inesorabilmente travolta dagli interessi privati. E non soltanto in Italia, ovviamente. Anche per questa via, per altro, si comprende che il problema è l’esatto opposto di quanto urlato da chi ha tratto maggior profitto dalla violenta ondata anti-politica: il vero problema non è la politica ma, al contrario, la sua crescente irrilevanza, la sua assenza, la sua ritirata.

Per questa ragione, penso che chi cercasse quelli che hanno coerentemente difeso la Costituzione dai tentativi di manomissione da parte dei peggiori, li troverà in quanti con il 20-21 settembre avranno espresso un doppio NO nei due ultimi referendum costituzionali; ossia in quanti respinsero al mittente il tentativo renziano di deforma costituzionale del 2016 e intendono respingere anche quello attuale. Si vede facilmente che in questo modo il campo si restringe e molto. Scambiandosi i ruoli, i fautori dello sfascio costituzionale del 2016 possono figurare oggi nel campo del NO, mentre gli architetti dell’attuale tentativo di sfascio animarono allora il fronte del NO. Gli uni e gli altri per mere ragioni di calcolo strumentale. A fasi alterne hanno tentato l’avventura sfascista: rafforzare l’Esecutivo in modo abnorme a discapito del Parlamento; rendere i parlamentari più controllabili; ridurre la rappresentanza dei territori; marginalizzare il Parlamento ed eliminare la dialettica tra punti di vista diversi, percepita come un intralcio.

In un caso come nell’altro si vorrebbe certificare la ritirata della Politica a favore degli interessi privati.

 

 

 

Ulteriore involuzione della forma partito e marginalizzazione del parlamento camminano di pari passo

La riduzione del numero dei parlamentari è imbevuta di un umore profondamente avverso alla democrazia parlamentare che ha messo d'accordo il populismo cinque stelle e le pulsioni antiparlamentariste dei partiti di sistema, probabilmente perché l'uno e gli altri, solo apparentemente alternativi tra loro e del resto infine alleati, sono organici alla più generale tendenza alla riduzione degli spazi della democrazia, cardine della governance tecno-finanziaria. Tracciato il quadro nei suoi termini generali, alcuni degli elementi che lo hanno composto vanno letti in chiave dinamica: il PD, per esempio, aveva acconsentito alla legge sulla riduzione dei parlamentari come concessione e suggello all’alleanza di governo con il M5S; Salvini, l’ex alleato nel governo “giallo-verde” ora veementemente all’opposizione, per non lasciare ai cinque stelle il monopolio di una legge apparentemente rivolta contro la Casta.

Quello che dovrebbe, comunque, essere chiaro, è che l’agenda di governo sulle riforme istituzionali è dettata da Grillo-Casaleggio, con il PD in posizione subalterna, e non senza malumori e spaccature. La riduzione del numero dei parlamentari, i cui risparmi sono come detto risibili, va vista, per altro, in combinazione con l'introduzione del vincolo di mandato, prossimo obiettivo dichiarato. Grillo-Casaleggio sbraita contro l'art. 67 della Costituzione (assenza di vincolo di mandato, appunto) dal giorno dopo delle elezioni generali del 2013, quando il M5S entrò per la prima volta in parlamento. L’attuale strano governo (strano perché mette insieme i due partiti i cui sostenitori vantavano un decennio buono di reciproci insulti) ha avuto il suo bagno di legittimazione all'insegna dell'anti-salvinismo. Forse vale la pena tenere presente che il pericolo per la democrazia non arriva sempre, o non arriva solo, da dove lo si attende, né replicando interamente forme già note e sentieri già battuti. L’importanza dell’introduzione del vincolo di mandato per i cinque stella è testimoniata anche dal fatto che fu inserita nel cosiddetto “Contratto del governo del cambiamento” [3] ossia nel documento che definiva le linee programmatiche del governo con la Lega, poi ovviamente decaduto quando l’intesa si sfasciò. Vale qui la pena di osservare che l’assenza di vincolo di mandato costituisce un caposaldo della democrazia parlamentare. Garantisce che i parlamentari non debbano necessariamente, nel votare una legge, allinearsi al partito o allo schieramento con il quale sono stati eletti. Caposaldo, quindi, tanto della democrazia parlamentare che della libertà di coscienza. Inutile dire che l’introduzione del vincolo di mandato, che pertanto dovrebbe passare per la modifica dell’articolo 67, viene presentata come una misura volta a contrastare il “trasformismo”. Anche in questo caso si tratta di un brutale travisamento. L’introduzione del vincolo di mandato conseguirebbe lo scopo di rendere i parlamentari ossequiosi alla linea del partito, sempre obbedienti, mai in dissenso, controllabili. Non sorprende, dunque, che l’introduzione del vincolo di mandato sia un pallino di Casaleggio-Grillo e occupi il suo posto nel disegno complessivo. Del quale, allora, provo a fornire una sintesi all’osso, per poi ritornare ad articolarne i singoli passaggi: meno parlamentari e più controllabili (e quindi sopratutto meno Parlamento), ligi alle direttive di partiti sempre più chiusi, autoreferenziali, privi di democrazia interna e rispondenti esclusivamente ad interessi privati, quando non proprietà di una azienda privata. I due processi – la marginalizzazione del Parlamento e l’ulteriore involuzione della forma partito – sono paralleli e vanno letti insieme. Entrambi sono ancorati al quadro della ritirata della politica, cardine della governance neoliberale. In linea di principio, con partiti nei quali la discussione critica è del tutto assente (surrogata da infinite forme palliative facilmente attuate da un partito liquido e post-ideologico, che avrà sempre una piattaforma “rivoluzionaria” da mettere a disposizione), appiattiti sulla volontà della leadership, e un parlamento formato da eletti in numero minore e controllati direttamente da siffatti partiti, si può essere sicuri che il Parlamento non abbia da fare altro se non eseguire quanto deciso altrove, fuori dalla politica e dalle sue leggi di mediazione democratica. È la piena e completa riconduzione della politica all’economia.

 

 

 

Cosa sperano davvero i cosiddetti “poteri forti”?

Recentemente Il Fatto quotidiano, il giornale di Marco Travaglio, ha scritto in prima pagina che 4 italiani su 5 sono per il SI, mentre i poteri forti sono per il no. [4]

I “poteri forti”, se proprio si vuole usare questa espressione piuttosto vaga e dal sempre sicuro richiamo demagogico, tifano semmai per il SI, e cioè per la gestione oligarchica di una democrazia di facciata; per la definitiva certificazione della ritirata della politica, che deve limitarsi a riflettere gli interessi privati; per la scelta a favore della forma del partito azienda padronale e liquido, la cui volontà emana direttamente dalla leadership, solo apparentemente mediata da forme di partecipazione digitale in realtà false e ingannevoli; per il ridimensionamento dell'importanza del Parlamento, che deve progressivamente essere ridotto a un luogo di mera ratifica di una volontà esterna.

Contrariamente a quanto molti sprovveduti hanno creduto e credono, l 'esito finale della "democrazia diretta" propugnata dalla Casaleggio Associati, in linea di principio, non è che tutti partecipino al processo decisionale, bensì che più nessuno vi partecipi attraverso la mediazione della politica e dei partiti; la prima disarmata, colpita a morte nella dialettica parlamentare democratica e definitivamente asservita ai grandi potentati economici; i secondi sempre più svuotati di significato e rispondenti unicamente a interessi privati. In questo disegno, chiaro nelle sue linee generali e del tutto consapevole da parte dei suoi architetti, il parlamento può essere solo un intralcio.

Quelli che spingono con maggiore enfasi per il SI referendario sono i sostenitori, e in parte i riusciti artefici, di una insostenibile utopia post-democratica. In tempi di ritirata della Politica e, di conseguenza, in presenza di una scena politica dominata da politicanti; in una situazione di crescente scollamento tra i vertici dei partiti e la base e di distanza e sfiducia tra la politica e le istituzioni e i cittadini, respingiamo almeno al mittente il peggio del peggio, che, se realizzato, non farebbe altro che aggravare, e non risolvere, tutte le criticità esistenti.

Votare NO al referendum costituzionale non significa "salvare un parlamento di cialtroni e incapaci", come sostengono i fautori del SI. Significa salvare il Parlamento contro i cialtroni e gli incapaci che lo vogliono affossare e contro altri cialtroni e incapaci che in futuro volessero ridurlo al proprio volere.

Non basta dire che la legge sul taglio della democrazia parlamentare è demagogica e sbagliata; sarà anche bene convincersi finalmente, dopo anni di sbornia antipolitica, che il partito della Casaleggio Associati esprime compiutamente, pur non avendone l'esclusiva assoluta, atteggiamenti tendenzialmente eversivi dell'ordine democratico, che oggi passano per lo svuotamento della democrazia parlamentare, con l'obiettivo della sua gestione oligarchica e del definitivo e sicuro asservimento della politica alla tecno-finanza.

Meno Parlamento e meno politica significa certificare e accelerare lo spostamento di importanza dalla Politica (con la maiuscola), già in atto, ad altri centri decisionali, ai quali la politica (con la minuscola) sempre più risponde. La Casaleggio Associati, e il M5S che è il suo giocattolino, persegue e ha sempre perseguito questo disegno, è organico a questo progetto, è instrumentum regni.

Il problema è la selezione della classe politica, non il numero dei parlamentari. Non devono essere di meno, dovrebbero essere migliori.

 

 

 

 

 

 

NOTE

 

[1] Andrea Gagliardi, “Taglio parlamentari, il caso Basilicata e Umbria che perdono oltre metà dei senatori”, Il sole 24 ore, 8 ottobre 2019; Andrea Fabozzi, “Referendum costituzionale sul taglio del Parlamento: perché No”, Il Manifesto, 20 agosto 2020.

[2] dichiarazione resa all’interno di una intervista rilasciata al quotidiano La verità, ampiamente circolata e mai smentita

[3] pagina 35 del “Contratto”

[4] Il Fatto quotidiano, prima pagina del 4 settembre 2020

 

Webgrafia essenziale

Perché NO

Luciano Canfora, “Tagliare gli eletti è la più stupida delle riforme”, su Repubblica, 21 agosto 2020

Fabio de Nardis, “Sicuri che il “Si” sia un voto anti-casta?”, su Jacobin Italia, 1 settemnre 2020

Lanfranco Turci, “Caro Fassina, che errore il Si al referendum”, su Left, 5 settembre 2020

(Pier Paolo Caserta, 15-09-2020)

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“Tra qualche lustro faremo a meno pure del Parlamento”

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